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Porta Venosina
 Le mura normanne intervallate da torrioni di avvistamento circondano interamente il centro storico e si estendono per oltre quattro chilometri. Non ci sono esempi simili in tutto il meridione e, rappresentano un complesso monumentale di grande suggestione. Le brecce presenti sono state praticate nei primi anni del '900, per le sorte necessità viarie. Lungo la cinta muraria si aprivano sei porte, delle quali l'unica ancora conservata è la PORTA VENOSINA così detta perché da essa partiva un'arteria che conduceva alla via Appia e quindi a Venosa. A destra dell'ogiva gotica dell'ingresso è scolpito lo stemma di Melfi e, a sinistra, quello dei Caracciolo che restaurarono le mura a fine 400. A costruire cinta e porte furono i normanni, ma Federico II ci mise le mani e vi appose una lapide che celebrava l'antica gloria e la grandezza della città, sostituita più tardi da Giovanni II Caracciolo con quella ancor oggi visibile.
Episcopio
 L'originale edificio normanno (eretto intorno al 1093) è stato ampliato da Gaspare Loffredo (vescovo di Melfi dal 1472 al 1480) e da Matteo Bramano (1591-1594), ed in parte rifatto in stile barocco dai vescovi Antonio Spinelli (1696-1724) e Pasquale Teodoro Basta (1748-1763). Cesare Malpica nel suo reportage sulla Basilicata sostiene nel 1846 che: "L'Episcopio con la sua lunga facciata, col grandioso cortile, con la maestosa scala, con le vastissime sale, colle adorne stanze va certo posto fra i primi del Regno, e forse, ancora non ha uguali". Da ammirare l'ampio giardino recintato voluto dal vescovo Mario Rufino (1547-1558), il salone degli stemmi ideato dal vescovo Basta, la sala del trono, con le pareti affrescate, la fontana del tardo 700 che adorna il cortile interno e l'ampio scalone a forbice che ricorda i palazzi nobiliari napoletani. All'interno i saloni ospitano oggi un'interessante pinacoteca ricca di paramenti sacri e di dipinti di soggetti religiosi e laici che vanno dalla scuola di Nicola da Tolentino attestato al secolo XV a opere di Cristiano Danona.
Catedrale
 Della prima cattedrale, dedicata a S. Pietro ed edificata da Roberto il Guiscardo, non rimane traccia. Ma anche dell'originaria fattezza dell'attuale cattedrale è rimasto poco. Voluta, fra il 1149 ed il 1150 da Ruggero II, è dedicata alla Madonna di Nazareth. Con le ristrutturazioni del 1480 e del 1723, al romanico si è sostituito il barocco. La facciata bianca e severa è divisa in due piani da un cornicione; sia la parte superiore che inferiore sono attraversate da lesene con capitelli corinzi. Al centro, il portale in pietra bianca è sormontato da due angeli che sorreggono una cornice ovale. L'interno è a tre navate divise da due file di colonne a base quadrata da cui prendono origine cinque archi. Il pavimento è in marmo e pietre dure montate a quadri romboidali. Le navate laterali presentano un soffitto con volte a vela mentre la centrale ha un controsoffitto in cassettoni di legno dorato realizzato nel XVIII secolo dal vescovo Spinelli che vi fece apporre al centro il proprio stemma gentilizio. Al vescovo napoletano si devono anche il Pergamo ed il Trono entrambi barocchi ed in legno intagliato e decorato in oro. Risalendo dall'ingresso verso l'altare maggiore troviamo sulla destra sei preziosissime cappelle, mentre sulla parte sinistra, altre quattro. In fondo alla navata centrale, l'altare maggiore consacrato nel 1752. Di stile barocco è costruito con marmi pregiati a mo' d'intarsio curvilineo. Nella parte posteriore dell'altare, il corpo di S. Teodoro martire traslato a Melfi dal vescovo Basta nel 1752. Alle spalle dell'altare maggiore il presbiterio e un coro ligneo risalente al 1500. A sormontare il coro, un organo a canne del 1700.
Campanile
 Dell'edificio normanno rimane il monumentale campanile, opera di Noslo de Remerio, voluto da Ruggero II nel 1153. A pianta quadrata di 9,25 metri per lato; con i suoi tre piani e con la piramide terminale raggiunge circa 61 metri d'altezza e da lontano sembra un'immensa torre posta a guardia della città. Nel primo piano, oltre all'iscrizione che ci tramanda il nome del costruttore e la data di fondazione, sono inserite tre imponenti teste di leoni in pietra bianca, simbolo della casata normanna; due ad ovest e uno a sud, e forse provenienti da altro edificio. Nel secondo e terzo piano ammiriamo quattro bifore circondate da fregi policromi in lava scura e chiara: all'ultimo piano, in particolare, l'architetto ha usato le pietre vulcaniche bianche e nere del Vulture a mò di mosaico ricavando due grifi accostati alla bifora del lato sud. Queste decorazioni, uniche nell'architettura della regione sembrano di importazione siciliana e ricordano le figurazioni simboliche persiane dei Sassanidi (V- VI secolo). Sulla cornice del terzo piano Federico II fece apporre i merli ghibellini abbattuti dopo il 1851 per ordine del vescovo Sellini. Al di sopra del terzo piano, poggia un prisma ottagonale che funge da base ad una piramide che sostituisce l'originale cupoletta circolare tipica delle costruzioni normanno-arabe.
Castelo
 Edificato dai normanni, ricostruito da Federico II, dotato di nuove torri da Carlo I d'Angiò, rimaneggiato dai Caracciolo e dai Doria, anche se conserva l'aspetto di una fortezza, non rappresenta certo un esempio di architettura unitaria. Senza dubbio è il castello più noto della Basilicata ed uno dei più grandi del meridione. Costruito sulla sommità di un colle, protetto da un fossato, da uno spalto e da una cinta muraria, ha dieci torri di cui sette rettangolari e tre pentagonali (angioine): (partendo dal portale principale e procedendo in senso orario): 1) Torre dell'Ingresso alta pochi metri 2) Torre dello Stendardo o dei Cipressi, pentagonale 3) Torre della Secretaria o Della Terrazza 4) Torre del Baluardo del Leone, pentagonale 5) Torre dell'Imperatore o dei Sette Venti, la più avanzata nella campagna 6) Torre senza nome, restano solo i ruderi 7) Torre di Nord Est o Torrita Parvula 8) Torre delle Carceri o di Marcangione 9) Torre della Chiesa 10) Torre dell'Orologio, pentagonale. Quattro sono gli ingressi di cui tre angioini. Il primo (oggi murato) a nord est vicino alla Torre Parvula, metteva in comunicazione direttamente con la campagna; il secondo (di servizio ed anch'esso murato), nei pressi della Torre della Chiesa, si apre nello spalto; il terzo a sud ovest, oggi visibile (ma non in uso) vicino al Baluardo del Leone permetteva di raggiungere il fossato e quindi la città; in età angioina era l'ingresso principale. Il quarto, oggi in uso, da accesso al paese attraverso un ponte, un tempo levatoio; fu aperto dai Doria.
 Superato il portone si entra nel Cortile Principale su cui si affacciano il palazzo baronale e la cappella gentilizia e subito dopo un'arcata che congiunge il palazzo alla chiesa si aprono il Cortile della Rimessa e quello della Cisterna e, tra la torre dell'Imperatore e la Torrita Parvula, il Cortile del Mortorio. Infine, fra la torre dell'Imperatore e il Baluardo del Leone la Piazza degli Armigeri. Alle due estremità anteriori del complesso centrale, incorporate nel fabbricato, si notano due torri quadrate, un'altra si trova nell'angolo posteriore di sinistra ed un'altra doveva essere nell'angolo opposto ma al presente non c'è più traccia. Questo è certamente il primo nucleo normanno costituito da quattro torri che racchiudevano al piano terra due enormi locali a volta e su di essi altri due saloni, uno dei due è il Salone delle Scodelle in cui furono proclamate nel 1231 le Costituzioni Melfitane. Di un certo valore architettonico sono la finestra della Sala del Trono, il motivo a bifora della torre di Marcangione, che ricorda la facciata della cattedrale di Termoli, e il capitello del bastione intorno a cui si snoda la scala a chiocciola posta fra la torre delle Carceri e la torre di Nord Est, capitello che ricorda quelli di Castel del Monte. In una parte del pianterreno del corpo frontale è stato istituito il MUSEO NAZIONALE DEL MELFESE. Visitando le sale si può ricostruire la storia di tutto il territorio dall'età protoclassica. Nella torre dell'Orologio è custodito il SARCOFAGO ROMANO ritrovato nel 1866. L'immenso blocco di marmo è probabilmente l'urna funeraria di Emilia Sauro, la figlia di Cecilia Metella. L'opera rappresenta due diverse scuole di scultura: il coperchio è romano e forse lavorato a Venosa, la cassa è invece di provenienza greca. Sul letto coperchio della tomba si adagia il flessuoso corpo di una giovane dai bellissimi lineamenti, ai suoi piedi un cagnolino e vicino al capo un putto che in una mano regge una corona spezzata e nell'altra una falce rivolta verso terra. La postura della fanciulla fa ricordare la tomba rinascimentale di Ilaria del Carretto di Andrea del Castagno.
Chiese Rupestri
 Tra le chiese rupestri la più organica dal punto di vista strutturale è quella di SANTA MARGHERITA interamente scavata nel tufo, risalente al 1200. Scoperta da Gian Battista Guarini, è a una sola navata ed è affrescata su tutte le pareti tranne nelle cappelle vicine alla zona absidale. Sono raffigurati l'arcangelo Michele, la Madonna con Bambino, S. Giovanni Battista, Cristo in Trono, S. Basilio, S. Nicola e, nella volta absidale, il Cristo Pantocratore. Nell'affresco di S. Margherita, sopra all'altare principale, e in quello di S. Lucia e S. Caterina si innestano alcune suggestioni di gusto nordico. Sulle pareti di sinistra compaiono scene dei tre Martiri S. Andrea, S. Stefano e S. Lorenzo che assumono una posizione cardine nello sviluppo di un linguaggio che si va gradualmente spogliando delle reminiscenze bizantine e che sfocia nel "Contrasto dei Vivi e dei Morti" in cui i "morti" sono colti nell'atto di apostrofare i "vivi". Tra i personaggi appaiono nella cappella tre figure laiche in tenuta da falconieri. Nel 1993 il napoletano, Raffaele Capaldo, ha sviluppato la tesi secondo cui i tre laici, sarebbero i componenti della famiglia imperiale sveva: Corrado, figlio di Federico II, l'imperatore e sua moglie Elisabetta d'Inghilterra, in tenuta da falconieri in quanto Federico "doveva essere riconosciuto dai popolani che frequentavano l'umile chiesetta ed erano abituati a vederlo in tenuta venatoria". Il messaggio è fin troppo palese. L'anonimo frescante intendeva ricordare attraverso l'orrore delle raffigurazioni, dal ghigno del teschio ai vermi che brulicano nel loro ventre, che la morte non risparmia nessuno, neppure gli imperatori.